Ideologico e Primordiale
- per una semiotica dell’appartenenza -
«La stabilità è non meno misteriosa del mutamento».
Claude Lévi-Strauss. Anthropologie structurale, 1966.
Il lavoro di Vittorio Formisano risente di un moto espressivo che affonda le proprie radici nella ricerca proto-informale; il clima, se non puramente francese, è di sicuro, comunque, europeo, fra la memoria della fossilizzazione operosa di Jean Fautrier, della stilizzazione ridotta di Jean Dubuffet, della decostruzione diffusa di Wols. Ma senza ripartire dalla citazione di un’indistinta natura di forma e di spazio, Formisano agisce in funzione di una valenza extra-tecnica del risultato empirico; l’autore si assume la responsabilità di essere per tutti, tanto da realizzarsi quale fautore di un’altra artistica coscienza civile. Di ombra letteraria, tale modo di reagire allo stato delle cose diventa qui preziosità stilistica, benché riassunta per stilemi e picchi d’intrepida sintesi. La tecnica è impavida nel suo farsi semplicità dichiarata, finché si posa, estenuata, alla soglia del sentire comunitario che è avvertimento e avvertenza, libello e trattato, struttura di confine tra sosta e deposito d’eternità.
Dal secondo dopoguerra, grazie allo sviluppo del sistema produttivo mondiale – evoluzione economica e culturale – la ricerca artistica internazionale si è mossa secondo un duplice modello: efficienza e quantità (per gli Stati Uniti); tradizione e bellezza (per l’Europa). Formisano resta in linea con la sperimentazione di mezzi propri di qua dell’Oceano Atlantico: sublimi nel loro farsi impronta sociale e socializzata, perché l’origine dell’afflato culturale europeo si riscopra nell’istinto alla domanda su noi stessi, che prosegue alla tendenza sistemante. E anche se quest’arte respira su criteri di evidenza strumentale, è indubbio che in essa non persista quel certo “spirito di verifica”, ossia la possibilità di approfondirne uso ed estensione in una vicenda sempre quotidiana. Detta arte, seppure non trovi ancora la propria specificità nella dimostrazione di concretezza fattiva, di solerzia, di laboriosità costante, serve la premurosa causa di un collegamento col criterio generale, il quale vale per una collocazione creativa del contesto socioculturale. Ne deriva un nuovo impegno ideologico, forte di reiterazioni tipiche della storia e del suo riferimento alla vita e alla consapevolezza del vivere. Esistere, quindi, come stratificazione utile per un prolungamento del passato e un perenne rinnovamento della visione politica.
Arte significa di nuovo (e finalmente?) ideologia. Arte vuol dire idea e conoscenza; discorso aperto sull’arte stessa, sul sistema dell’arte ma soprattutto sul mondo. Arte è possibilità, volontà, necessità di ricordare o di cambiare le cose. Formisano utilizza sì la tecnica per fare arte, ma poi usa l’arte per ricostituire l’unità dell’essere umano; e ciò per lui è integrità, perfino moralità. La tensione tra l’intenzione artistica e gli eventi dell’accadere storico diviene energia: visione politica, progetto di considerazione della realtà, costante culturale in anteprima – perché l’artista si assume il peso dell’intuizione e della comunicazione. L’artista torna a pensare pubblicamente; l’artista denuncia ancora...
Il bisogno di una relazione consapevole tra i viventi, il dialogo, il rapporto democratico: ecco il senso dell’opera di Vittorio Formisano; un’azione visuale incisiva e sana, tanto persuasa quanto libera, più orizzontale che progressista. Il pubblico si specchia nell’artista, nel suo fare e dare. Quello dell’autore è uno stadio elementare del saper guardare e vedere il mondo, perché egli riveste la forza della materia umana dell’Uno: sorta di Uno-Tutto contemporaneo, spesso gobbo al destino, prono al futuro ignoto. E un niente vive intorno a lui; è il Nulla che non-è – ai confini di un corpo cittadino uguale agli altri ma unico, solitario: sempre numerico ma talvolta numerato, archiviato da una storia infame, già definito perché risolto in crudeli pratiche collettive enucleate. La prassi del tempo fa il proprio corso: utile da un punto di vista materialmente naturalista – sebbene prima debba valere l’eticità, contro l’oggettività del caos o l’aberrazione dell’ingiustizia, sopra ogni misura e oltre tutte le ragioni ordinatrici.
Ideologico e primordiale, allora; perché l’artista sa solleticare e sollecitare lo stato delle molteplici libertà
positive e quello dell’unica libertà globale. Una coscienza comunitaria, affiorata per antropologica bellezza, permette a Formisano l’oggettivazione di uno standard etnologico; esso testimonia l’annullazione della psicologia individuale, la rinuncia all’espressivo – seppure qui la matrice non sia Pop ma seccamente corporea, anonimamente segnica (per una semiotica dell’appartenenza). La critica è nei confronti di una società dello scambio più o meno deprecabile o cruento, in cui anche le relazioni interpersonali finiscono per diventare mercificazione; si cerca di demitizzare il modulo attraverso un’applicazione dimostrativa della logica del modulo stesso. La rappresentazione dello statistico, tramite l’iconografia dell’infinito concepito nell’unico esemplare, dona alle composizioni di Vittorio Formisano un sapore dichiarativo di distacco e freddezza, teso però alla conquista di uno stereotipo che mira alla salubre differenza come processo formativo della neutralità. La Natura è un rituale soltanto umano, perché spazio già consegnato alla Storia quale storia della cultura. Di qui, verso una comunità che conduca il recupero del ruolo civile mediante l’utilizzazione sociale delle risorse (umane e no).
Formisano agisce nell’ambito tecnico di due attitudini – pittura e installazione – ma entrambe intervengono con lo spirito di una moltitudine (umana) che si riferisce al concetto dell’indefinito (illimitato). In una cosmologia pessoana che rivela il proprio senso nell’astratto del niente in cui sostano le sagome degli uomini e le forme degli oggetti, l’autore colloca una miscela di elementi protagonisti della composizione (volti, corpi, candele di cera colorata di rosso o incisa dai numeri dello sterminio di massa, strumenti per l’igiene uditiva personale, spugne, timbri...).
L’idea che la rappresentazione corporea o dell’oggetto si sottragga al bisogno di riconoscibilità è dettata dall’abbandono della mimesi ristoratrice, per condurre l’apparato della conoscenza oltre la soglia del piacere da conforto fisico: dentro il successo di una nemesi tutta teorica, quasi aprioristica, perfino ontologica. È la fondazione di una corporeità che discende eppure prescinde dal particolare, per via di un sapere precedente alla determinazione in sé: inquieta genesi formale, dunque, scevra del riposo sufficiente alla rassicurazione del vero; sorda realtà in formula mentale, più ideale che spirituale.
Con la sensibilità irrisolta di uno spazio anche al confine dell’incorporeo, Formisano indaga proprio il corpo; un corpo chiuso o schiuso, un corpo che, dalla propria estensione si presta a un’estensibilità programmata. Il corpo è una linea, indipendente dalle possibilità della materia, sebbene spazio e tempo si serrino nel frattale della loro entità comune, unica, se un confine esiste soltanto come limite, come fremito di una forza cromatica pronta, turbata, già scomposta. E ciò perché l’essere è isolato nel deserto del colore, aprendosi all’assenza di una fine e alla presenza di definizioni impossibili.
L’alfabeto dell’artista si realizza in relitti, fossili moderni, orme della comunicazione civica che evoca la vita per il peso dei rapporti socioculturali che sa rilasciare: nel moto dell’uomo fra l’uomo, dell’altro con gli altri; attraverso lo strumento della figura o dell’oggetto simbolico (norma di quell’esistere). Uno «spirito etico» rappresenta, così, la società civile, ma induce anche la questione della verità soffocata dal processo dell’imposizione, dell’oltraggio, del disonore. Il bene, quindi, diventa simbolo della necessità di un sistema; e questo decreta, istituisce teoricamente il cuore del «pensiero moderno», fatto prima di nazionalismi (nell’Ottocento) e poi di globalizzazione (oggi, nel Duemila), senza sfiorare una più saggia e diffusa e giusta moralità.
Lo stile di Formisano racconta d’immagini semplici ereditate dal fumetto e dalla grafica, ma mai riprodotte dietro la sagoma di mascherine e con l’uso del colore spray o del collage. L’autore è invece capace di sintesi pittorica e oggettuale – pur nell’abbandono consapevole della tecnica accademica – che riesce a descrivere l’equilibrio delle relazioni umane sullo sfondo del presunto progresso contemporaneo, rivolgendosi alla problematica del vivere comunitario occidentalizzato. Egli detta il passo di interventi esterni, per parentesi adottate o ereditate anche da lontano: a indurre la riflessione sul senso della reciprocità determinato dal confronto. Si capisce, allora, il percorso personale grazie alla logica di un’identità oggettiva: esportando il bisogno di rivincita individuale e, insieme, di partecipazione sociale. Vale l’indagine nell’etica universale, per restituire una differente dignità umana al cittadino del III millennio, con un carattere graficamente globale e assoluto dei soggetti e dei temi – nonostante l’influsso etnologico sia pro
fondo e mediato, acquisito, elaborato, risolto in sintesi d’anonimia. E l’atmosfera di matrice popolare si riversa sull’emergenza della serietà o dell’ironia, sempre centrata sulla simpatia oppure sull’insorgenza che incoraggia o spaventa, ma serve; è comunque utile al messaggio.
Sorgono, così, visioni sempre chiare di motivi perfino confusi; corroborando la ricerca dell’evidenza con la definizione di nuove dialettiche e la riflessione su quelle storiche: a dichiarare il ruolo dell’idea di cultura sociale – un precetto filosofico come il metodo per Cartesio e la morale per Kant. Vittorio Formisano si mostra critico con l’esperienza di una realtà passata o presente: ambiente della contraffazione e della contraddizione, in cui si esprime quotidianamente un modello che sovente varia e per cui si celebrano inconsulte esagerazioni, difetti osannati, qualità ignorata, libertà abusata; un effetto che conduce al disagio, alla costrizione, alla tragedia, al dramma, alla morte, alla strage, alla guerra. L’interesse dell’artista passa per la corporeità, una corporeità basilare che, quando non riguarda esplicitamente l’uomo, si sofferma sulla natura del suo simbolo quale cenno evidente o allusivo, estetizzato in riferimento all’umanità fisica in sagoma oppure in teoria narrativa o retorica o metaforica. E questo guardando dall’esterno, perché per conoscere ci si deve annichilire negli altri o nell’altro da noi; la dimensione è direttamente o indirettamente antropomorfica, capace di cercare e trovare attinenze con l’uomo o comunque con il senso della forma umana. Il moto espressivo, insomma, si dimostra circolare: andata e ritorno dall’umanità, intorno a una minima fisicità corporea, sebbene l’attinenza umanoide non sia che centralità di una posizione collocata in Natura e non in un’unica cultura – la natura del mondo in grado di «essere nel tempo», evolvendo o involvendo (adatta o inadatta schiava del cambiamento storico).
La bellezza non è più apprezzabile quale giacimento classico, in cui l’armonia si riscopre con cura disponendo la realtà come accessorio e in parti o pezzi. L’artista non trasforma per peggiorare o migliorare, ma ora denota moralmente l’essenza di un soggetto (volto o corpo od oggetto); l’artista mira adesso alla sua identità, pur non dirigendosi verso le peculiarità di qualcuno o di qualcosa per sottolinearne la rappresentazione quale manifestazione delle possibilità ideologiche, riprodotte incontro all’accezione della materia (esempio di sé in quanto specie). L’individualità dell’uomo culturalizzato o dell’oggetto concettualizzato si compiace per il parallelo con una relazione di stirpe dallo stato del vivere contemporaneo, realizzata attraverso un linguaggio che è espressione dell’attualità per «presenza ritratta», non discendente dall’epifania ma dal concetto di un carattere personale derivato da quello socioculturale.
Il concetto di “personæ” o “ego” non è infatti universale né innato; si è sviluppato lentamente nel corso dei millenni ed è rimasto ancora oggi fluttuante, agile e fragile, in elaborazione. Non è mai esistito un popolo in cui tale nozione, riferita al corpo e allo spirito, non sia valsa – nelle forme del diritto, della morale, della religione, del costume, della socialità in genere – in modo da connotare l’ethos di una cultura in ogni tempo. E anche se il primo nesso vanta origini etrusche, la categoria etnologica è recente, come è recente il suo culto o la sua aberrazione o il suo rispetto. La persona realizzata da Formisano riassume quasi una prefigurazione delle peculiarità umane incarnate in ciascuno di noi, ma rinnovando il senso di ciò che tutti siamo oggi come conseguenza, risultato, effetto, prodotto: odierna definizione di quel contenuto che va a confortare la parvenza di un nucleo elastico e acquisito della modernità. Nel valore nominale di un’essenza, allora, si fissano le caratteristiche dell’umanità occidentalizzata contemporanea, la quale stabilisce, per estetica, l’entità di ognuno, di quel che in fondo siamo attraverso l’uso sociale, culturale, morale della persona artistica.
Ciò che è racchiuso nell’arte è una maniera dell’abitare la società moderna: la per-sona diventa di nuovo la maschera latina che dà voce all’attore, facendosi conoscere per il suono antico che amalgama gli usi linguistici di una proprietà, come se questa ne fosse il «nomen» (ruolo sociale, dall’appartenenza) e insieme il «cognomen» (rappresentazione culturale, dal soprannome). Ed ecco che i termini scritti della lingua italiana o inglese pesano quanto l’autoritratto dell’artista: persona o personaggio che l’uomo del presente può / deve / vuole essere, ossia il suo vero o finto carattere legato all’autentico e biografico aspetto barbuto dell’autore. La parola e l’autoritratto, insomma, si spingono a trattare una sostanza da cercare o da celare; la prima verità si trattiene all’interno, ma la seconda è l’immagine sovrapposta che
l’esterno inculca: persona quale nuda essenzialità e personaggio quale artificio applicato. La personificazione viene rispettivamente da dentro e / o da fuori. Ma non c’è ancora il peso dell’estetica come indagine sulla bellezza, perché lo strumento del gusto che serve alla ricerca del piacere non si riversa mai sull’esteriorità (dell’abito, della moda, di tutto quello che l’uomo e la donna avvertono quale necessità di completamento, sia connotazione o falsificazione personale).
Il cammino espressivo, linguistico o iconico o concreto che sia, sa di denuncia. L’esigenza è quella di svelare o di velare. Ci si esprime o ci si mimetizza, ma in ogni caso si ossequia il rapporto con il contesto, un (non) luogo che viene rimarcato per vedere la nostra immagine riflessa e averne consapevolezza, quindi averla di ciò che siamo. Quel rapporto interno / esterno è divulgato dall’arte: il soggetto dell’artista, la sua persona si dà quale stadio unico del nostro livello socioculturale, capace sì di realizzarsi di continuo col trascorrere del tempo, ma eternato quasi secondo tutte le attuali condizioni dell’esistenza. La funzione di tale personalità artistica, infatti, pare non basarsi su fattori contingenti del vivere: il grado tecnologico riprodotto dagli oggetti non è indice del valore formale della naturalità. Ed è da qui, dalla libertà, che il comportamento umano arriva a migliorare e peggiorare il livello della propria civiltà: sogno di una natura impossibile più vicina a ciò che siamo diventati, o incubo di un’umanità che si sviluppa senza progredire.
L’umanità di Vittorio Formisano affronta una tenera, simpatica ma seria forma di rivelazione antropologica, una «razza universale» che il nostro stile di vita ha recentemente forgiato affogando le proprie premesse evolutive in un’accezione primitivista. Noi primitivi, con la forza del più magico spirito di sintesi; noi moderni sapiens; noi discendenti, significanti animali umani. Ogni esemplare di uomo reca in sé la causa e il sintomo di un’esistenza di detto tipo, disposta a rendersi soltanto bella di linea, fino alla pura sagoma. Tutto diventa vero per spirito sociologico: di un esterno che sa di confronto e di rapporto con l’umanità, con quell’umanità che vuole accorgersi del mondo delle cose, del loro sapore politico e non sempre poetico. Formisano fa luce sul soggetto uomo, giungendo a considerare quell’uomo con “sguardo attivo”: ora è anch’esso oggetto benché positivo, autocritico, distante; l’uomo è osservabile e la cultura può essere reintegrata in natura, come noi negli altri. L’artista palesa, per arte, la corrispondenza dell’essere e del vivere, fidandosi di un’epifania sociologica che rimanda all’estetica di singoli moralmente migliori perché migliorati, indipendenti ma non autosufficienti nei confronti della comunità. L’individuo di Vittorio Formisano è un elemento universale in cui c’è collimazione del fattore «sensibilità» e del fattore «esperienza»: a rappresentare così il fenomeno dell’anonimato relativista – esempio tanto perfetto di appartenenza, quanto pericoloso di (non) adattamento.
Si guarda, sicché, allo stato del rapporto singolo / molteplice, senza vederlo dal lato del bisogno o da quello del disturbo, per rivolgersi a una soluzione possibile che non è feticcio né spettro. Siamo soltanto all’effetto oggettivabile dei concetti di «complessità» e di «comunità», seguiti da quelli di «ordinamento» e di «provvedimento»; l’antropologia rilascia la condotta e ne libera la schiavitù connotando una sorta di diffusione della nostra profondità, senza, però, richiami esistenziali né narrativi né lirici. E ciò secondo l’indagine della consuetudine (nómos), che qui non avvalora la scelta di quella «via esterna» rintracciata dall’antropologo italiano Francesco Remotti spiegando la poetica del viaggio nei costumi per comprendere la «cultura» – intesa come qualsiasi capacità o attitudine acquisita dall’uomo in quanto membro della società (Taylor, 1871) e come «diversità», «molteplicità», differente dalla «natura» che, al contrario, è «unità».
L’agire di Vittorio Formisano sancisce la semplice memoria visiva di un certo strutturalismo: relazioni costanti e sistematiche tra fenomeni nel tempo; tracce di vita sociale come costumi dedotti da leggi universali; funzioni globali di unità ordinate. È, in fondo, la bellezza del codice umano: espressività lineare, fra particolare e generale