L'Età dell'Innocenza?

2012

Ero un bambino, cioè uno di quei mostri che

gli adulti fabbricano con i loro rimpianti.

Jean Paul Sartre 

Un bambino è turbolento, egoista, senza dolcezza

e senza pazienza; e nemmeno può,

come il semplice animale,  come il cane 

e il gatto, far da confidente ai dolori solitari 

Charles Baudelaire 

I bambini sono un’invenzione moderna, sotto certi aspetti sono un’invenzione italiana dovuta a quell’amabile vecchina che compariva in effigie sulle vecchie banconote da mille lire, e che rispondeva la nome di Maria Montessori.

Con questo non si vuole dire che i bambini non siano sempre esistiti-sarebbe un’assurdità - ma piuttosto si desidera affermare che l’infanzia, come viene concepita ai nostri giorni, è un’idea che nasce e si sviluppa a partire dal Settecento, e che assume l’accezione odierna per merito di questa intrepida studiosa italiana, che ha avuto il merito di rivoluzionare l’atteggiamento degli adulti nei confronti del bambino.

Senza scomodare l’Emile di Rousseau o, ancor prima, I libri della famiglia di Leon Battista Alberti, rivolgendo lo sguardo al passato ci si rende conto che i primi anni di vita di un essere umano erano intesi come un lungo processo di preparazione all’età adulta. 

La stessa storia dell’arte ci dimostra, attraverso miriade di ritratti infantili, come i bambini fossero visti come adulti in miniatura, basti ricordare a questo proposito  le celeberrime Las Meninas di Velázquez o le mini damine che compaiono nelle scene veneziane del Longhi

Il proliferare, a livello antropologico, in quasi tutte le culture, di riti di passaggio tra l’infanzia e la maturità, evidenzia in maniera netta come la dimensione infantile venisse concepita come una fase transitoria che trova compimento nel raggiungimento dell’età adulta.

Per noi uomini del XXI secolo l’infanzia è un periodo che inevitabilmente leghiamo al concetto di innocenza, di spensieratezza, di mancanza di malizia, è come se, idealmente, i bambini non conoscessero il male.

Il fumettista americano Bill Watterson, in una sua strip, afferma che chi ha nostalgia della propria infanzia, evidentemente, non ne ha mai vissuta una. La frase forse è un po’ ad effetto, ma quanti di noi, ricordando i primi anni di vita o i tempi delle scuole elementari, possono dire, in tutta onestà, che quelli erano tempi di indiscussa felicità, privi delle ansie e delle paure che tendiamo a ritenere esclusive dell’essere adulti?

I bambini non sono esseri innocenti - se non conoscono  il male significa, forse, che non comprendono il bene - siamo noi adulti che tendiamo ad idealizzare la nostra infanzia, perché è qualcosa di passato, di lontano, perché ci è stato sempre detto che è stata la nostra età dell’oro, il nostro El Dorado  e, per quanto di fondo siamo perfettamente consci che questa sia un’enorme bufala, ci dispiace pensarla in altra maniera.

Molti ritengono che non esistano bambini cattivi, ma, forse, non ne esistono neanche di buoni. I nostri cuccioli di uomo a cui  dedichiamo tutte le nostre cure, che copriamo di attenzioni al limite del maniacale, che trattiamo come un piccoli  principi, a cui forniamo stimoli, corsi, babysitter poliglotte e plurilaureate, non sono altro che adulti, solo un po’ più bassi e senza l’assillo delle tasse da pagare.

Deve averla pensata così anche Max Papeschi quando ha iniziato a concepire la serie di opere che danno vita alla mostra The Silence of the Lambs, giocando con l’ambigua traduzione italiana del titolo del film che vede Anthony Hopkins nei panni del raffinato cannibale Hannibal Lecter.

Il silenzio, in Italia, è quello degli innocenti e già, ad un primo livello, si coglie un  approccio  ironico nel confrontarsi con questa schiera di bambini che invadono  le composizioni fotografiche tipiche della produzione di Max.

Non traspare, infatti, molta innocenza da questi neonati urlanti intenti a parodiare, con un velo di cinismo, il mondo che li attende adulti.

Sono delle metafore, dei buoni selvaggi incoscienti, lontani da una supposta matura continenza, esseri dionisiaci che si abbandonano ad esibizioni di cinica spregiudicatezza, Sono tanto gli  artefici del crollo di Wall Street, quanto della speculazione finanziaria dei mercati orientali, sono bambini guerriglieri e squadristi, molto guerrafondai, e tremendamente aggressivi, che potrebbero soggiornare, senza problemi, nella parigina rue de mauvais garçon.

Papeschi si distacca, attraverso questa inedita serie, dall’immaginario dei protagonisti dei cartoni animati, rivolgendo il suo sguardo verso nuove possibilità espressive. Rimane - ma questa è una costante del lavoro dell’artista milanese - l’utilizzo del personaggio feticcio, pur rinunciando a tutto il patrimonio iconografico più squisitamente pop, tipico dei precedenti lavori. Ci si addentra, infatti, in una dimensione che rivela una ricerca concettuale che si allontana dal gioco di sovrapposizioni e contrapposizioni semantiche di immediata e quasi inconscia fruizione.

Il discorso in un certo senso si fa più sottile e duplice, perché, se da un lato, ad un primo livello si evidenzia il voluto contrasto tra il topos contemporaneo dell’ infanzia e la crudezza di alcune immagini, dall’altro l’utilizzo del bambino non è finalizzato solamente a questo tipo di lettura, ma apre una serie di percorsi  di indagine di grande attualità.

L’Unicef ritiene che circa un miliardo di bambini nel mondo si trovino nella situazione che viene definita  “infanzia negata”, cioè si trovano ad essere vittime di  abusi di vario genere, che vanno dal lavoro minorile, alla prostituzione o alla denutrizione cronica.. Proprio alla luce di questi dati non possiamo che soffermarci a riflettere con un sorriso molto, ma molto amaro, di fronte ad opere come Over the raimbow, Rwanda Souvenir o Aspetta e spera che già l’ora si avvicina che affrontano in maniera diretta problematiche di grandissima e drammatica attualità

Paradossalmente, concentrandosi sui bambini, l’agire artistico di Max Papeschi assume una nuova maturità, rendendo evidente e palesando in maniera decisa il suo sguardo disincantato di puntuale cronista della realtà contemporanea.

Non si accusi più Papeschi, come sono soliti fare i suoi detrattori, di risolvere il proprio lavoro in una teoria di semplici ed immediate boutades, di trovate di gusto guascone e farsesco, ma piuttosto si cerchi di comprendere la ricerca che vi è alle spalle di queste opere ironiche e drammatiche  al tempo stesso, che privilegiano il registro espressivo della commedia nella sua accezione dantesca, riportando alla memoria questi intensi versi:

 

Vesti la giubba,

e la faccia infarina.

La gente paga, e rider vuole qua.

E se Arlecchin t’invola Colombina,

ridi, Pagliaccio, e ognun applaudirà!

Tramuta in lazzi lo spasmo ed il pianto

in una smorfia il singhiozzo e ‘l dolor

Ah, ridi, Pagliaccio,

sul tuo amore infranto!

Ridi del duol, che t’avvelena il cor!”

Ruggero Leoncavallo, I pagliacci, Atto I

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