La strana storia di Yosa Buson e Massimo Caccia
la farfalla dorme tranquilla
aggrappata
alla campana del tempio
finché non suonerà
Taniguchi Buson
Taniguchi Buson nasce nel villaggio di Kema, nella provincia di Settsu (oggi Kema-cho, nella città di Osaka). All’età di vent’anni si trasferisce ad Edo (l’odierna Tokyo) per studiare poesia haikai con l’anziano maestro Hayano Hajin. Alla morte di quest’ultimo, si sposta nella provincia di Shimo-Usa e, seguendo le orme del suo idolo Basho, si reca nei territori selvaggi nel nord dell’isola di Honshu, dove il celebre haijin era stato ispirato per la sua opera Oku no Hosomichi (“L’angusta via il profondo nord”). Gli appunti di questo viaggio sono pubblicati nel 1744, sotto il nome Buson.
Il suo curriculum artistico non è chiarissimo, anche se pare certo che studiò come autodidatta i capolavori classici cinesi delle dinastie Ming e Yüan e subì l’influenza degli artisti Hyakusen e Itchô.
Viaggiò poi per molte altre zone del Giappone, fra cui Tango (la parte settentrionale dell’odierna Prefettura di Kyoto) e Sanuki (l’odierna Prefettura di Kagawa, sull’isola Shikoku). Si stabilì a Kyoto ormai quarantaduenne, iniziando a firmarsi con il cognome Yosa, forse ispirato al nome del villaggio natale della madre.
Si sposò tre anni dopo ed ebbe una figlia di nome Kuno. Non si spostò più da Kyoto, dove rimase a scrivere e ad insegnare poesia presso il Sumiya. Intorno ai cinquant’anni subì l’influenza della scuola Nan-p’in e subito dopo elaborò un proprio stile romantico sia nella pittura sia nella poesia.
Si specializzò in una lunga serie di soggetti, dagli animali agli elementi della natura, alternando grandi paraventi a piccoli quadri tendenti a descrivere le sue poesie.
Massimo Caccia nasce a Desio nel 1970 e nel 1992 si diploma in pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Brera.
Terminati gli studi si dedica a tempo pieno all’attività artistica esponendo in diverse mostre collettive e personali.
Ha realizzato le scenografie e le marionette per il film “Tu devi essere il lupo”, un’animazione utilizzata nella campagna natalizia di tele+ (oggi Sky) ed ha disegnato una collezione di tessuti per Miroglio. E’ autore della novel graphic “Deep Sleep” ed ha illustrato “Ninna nanna per una pecorella” e “C’é posto per tutti” per Topipittori.
Nei tempi morti prende mobili e oggetti di uso comune e li trasforma in animali.
Nel mese di giugno del 2012, a 42 anni, dopo 15 passati in una mansarda a Milano, senza quasi mai uscire, si è trasferito a Vigevano dove vive e lavora.
Due biografie di due artisti lontani nel tempo, nello spazio, nel loro background, nel modo di fare arte: da una parte Taniguchi Buson, detto Yosa, uno dei maestri dell’haiku e, dall’altra, il pittore italiano Massimo Caccia, con il suo raffinato stile grafico e le sue continue e fruttuose divagazioni nel mondo dell’animazione, del design e dell’illustrazione.
Si troverà forse difficoltà nel cercare un comun denominatore tra questi artisti, nel comprendere perché è opportuno citarli e ricordarli insieme. Si tralasci, in questo senso, la presenza nell’arte di Caccia di un riferimento al superflat di sapore neopop di origine Giapponese, perché non è questo il motivo che induce a creare un parallelismo tra i due autori.
Cosa c’è, infatti, nell’arte cristallizzata e sottovuoto di Caccia, nel suo universo piatto e atemporale - degno di Flatlandia - caratterizzato da linee nette e da campiture precise, che potrebbe ricordare la calligrafica arte di Yosa Buson?
Poco o niente, ad un primo sguardo. Poco, infatti, pare legare i due artisti, se li vogliamo analizzare con gli scarsi e poco fantasiosi mezzi che ci mette a disposizione la critica classica o con le vetuste classificazioni di forma e di stile. Ma, se si approfondisce la biografia del poeta giapponese, si scopre che, oltre alle belle lettere, Yosa Buson si dedicava con intento quasi didascalico alla pittura, e le sue opere, tralasciando i paraventi dipinti che tanto si rifanno all’arte tradizionale cinese del XVII secolo, sono brevi e immediati schizzi, quasi illustrazioni dei suoi haiku.
L’immediatezza e il gusto calligrafico del delizioso Cuculo che attraversa l’ortensia ci riporta, seppur con le dovute distinzioni, nel medesimo spazio creativo, nell’immediatezza e semplicità narrativa caratteristiche dell’agire artistico di Massimo.
Sia il grafico commentario di Bosa che i dipinti di Caccia risentono di un voluto e ricercato pauperismo, di un ermetismo ungarettiano ante litteram, quasi si proceda per tollere, privando di inutili orpelli una materia pittorica che si trova a suo agio in un raffinato e poetico minimalismo.
Sarebbe, forse, maggiormente corretto ritrovare archetipi e modelli del lavoro di Caccia in altre tradizioni artistiche, in esperienze più vicine nel tempo e nello spazio, come nella ricerca di Enzo Mari, nella cultura dell’illustrazione di scuola francese, o in tutta la tradizione della grafica pubblicitaria del secondo dopoguerra, ma tali influenze, seppur più dirette, risultano inevitabilmente banali e riduttive.
L’elemento poetico è preponderante, ed è da intendersi non solo in senso metaforico, ma piuttosto come volutamente declinato in una dimensione fortemente narrativa, privilegiando un approccio che supera il limiti della materia pittorica per esprimersi in una sorta di sublimazione grafica.
I tilt concettuali, i nonsense, le situazioni paradossali e immobilmente atemporali che vedono come protagonista il fantasioso universo animale creato da Massimo Caccia, non sono niente più che haiku pittorici.
Non sorprenderebbe, infatti, che l’artista, prima di creare queste composizioni, avesse messo in scarni versi l’essenza delle sue opere, come suggerirebbe il ritmico ripetersi dei formati delle tele che pare ricalcare lo schema sillabico dell’haiku.
Se l’haiku nasce come una forma di letteratura popolare come tashiu bunka, cultura popolare per l’appunto, lo stesso si potrebbe dire della produzione di Massimo Caccia che, nella semplicità del tratto e nell’immediatezza della leggibilità, fonda la sua ricerca. In entrambi i casi, queste origini popolari, o forse meglio, pop, lasciano ampio spazio a una complessità semantica e narrativa che non ci si aspetterebbe
Proprio in questa complessità ossimora alla semplicità apparente, nella vita che si cela dietro la rigidezza congelata e lo sguardo interrogativo dei protagonisti delle tele di Caccia si svolge e si dipana la pienezza della ricerca del nostro artista.
Caccia non è nulla più che un contemporaneo poeta, un autore di occidentalizzati haiku pittorici ed è, intimamente, per quanto forse inconsapevolmente, legato a Taniguchi Bosa.
Medesimo è, infatti, l’approccio, medesima la poetica staticità e l’immediatezza, medesima la sensibilità.
Partendo da punti diversi, da epoche diverse, da culture diverse, i due autori sono giunti a una ugual sintesi, ad un condiviso sentire, e questo, oltre che sorprendente, è molto affascinante, quasi venga ribadito il valore archetipale di alcune esperienze che, sospese oltre il tempo e lo spazio, si ripropongono nei momenti e nelle forme più inaspettate.
Le opere di Massimo non vanno solo osservate: non si tenga conto solo delle classificazioni di genere, di stile, di tecnica, ma si concepisca, di fronte a questo complesso ed interessante artista, che ha fatto della semplicità e della pacatezza un’arma di seduzione, un nuovo modo di intendere la pittura o, forse, un nuovo modo di leggere la poesia.