Fili, rituali e simbologie formali
È stato un processo lungo e non privo di incertezze, dietro-front, ripensamenti. Ma è un fatto che, negli ultimi quindici anni, l’arte aniconica in Italia abbia preso nuova forza, si sia reinventata nuove strade, soluzioni formali e linguistiche inaspettate e spesso innovative. Complice una rinnovata attenzione del mercato per molti artisti che hanno fatto del fulcro della loro ricerca proprio i due principi-cardine dell’analisi dello spazio oltre la semplice superficie lineare (pensiamo a Fontana in primis, ma anche a Castellani, Bonalumi, Scheggi etc.) e dell’aniconicità come cifra di decifrazione del mondo sensibile e della dimensione intellettuale e/o spirituale. A questo va aggiunto un ritorno di attenzione per la dimensione artigianale del lavoro, non più relegata all’ambito del dilettantismo, ma, al contrario, come rifiuto e reazione all’eccesso di intellettualizzazione e di smaterializzazione della pratica artistica. Ecco allora irrompere, con esiti di forte originalità e di innovazione formale, materiali “poveri” o inusuali, un tempo considerati marginali in ambito artistico, come carta, tessuto, filo, e tecniche fino a ieri considerate secondarie, quando non squalificanti per un artista “serio”, come il collage, il ricamo, il cucito, persino l’uncinetto. La pratica cosiddetta artigianale è così venuta assumendo un significato, anche simbolico, non solo di riappropriazione del ”mestiere” contro gli eccessi iperconcettualizzanti del fare artistico, ma altresì come strumento fortemente identitario, di orgogliosa rivendicazione della propria origine, vuoi culturale, vuoi geografica o di genere.
In questo ambito va situato, io credo, il lavoro, ancora poco conosciuto ma di buona tenuta sul piano linguistico e formale, di Iryna Datsko, che ha scelto il filo come materiale privilegiato del lavoro e un approccio formale che si riallaccia alle istanze della scuola dell’arte cinetica e programmata, ma con un viraggio inedito, che sconfina a tratti nel pop e finanche nell’allucinatorio e nello psichedelico, assecondando un trend internazionale che, dopo anni di sociologismo e di minimalismo forzato, è andato via via riscoprendo la gioiosità del colore, la sovrabbondanza formale e il gusto dell’eccesso, della moltiplicazione e dell’esuberanza formale.
Quello di Iryna Datsko è un lavoro che si riallaccia in maniera esplicita alla tradizione storica dell’arte cinetico-programmata per l’aspetto apertamente sperimentale e illusorio della percezione ottica data dall’incrocio e dal gioco mutevole dei fili, oltre che per il modello dichiaratamente seriale, frattale, rizomatico, combinatorio della composizione formale dell’opera. La struttura dell’opera stessa sembra alludere alle infinite possibilità di combinazione, di trasformazione e di accumulazione di elementi cromatici differenti, al di là di ogni pretesa di gerarchia formale e sintattica, in direzione di una potenzialmente infinita e sempre variabile disposizione delle linee sulla superficie del quadro, con un surplus di partecipazione empatica dello spettatore nel reagire alle sollecitazioni percettive prodotte dalle stesse trasformazioni lineari, cromatiche e luministiche del lavoro.
L’opera stessa, creata in maniera meticolosa e certosina con un esercizio di manualità che, per la sua dimensione volutamente e coscientemente ripetitiva, rimanda a tecniche rituali (quali la creazione di mandala, lo sgranare del rosario etc.) tradizionalmente utilizzate come attività di preparazione e introduzione a pratiche di accrescimento spirituale, di concentrazione e di elevazione verso dimensioni ultraterrene, giunge così a farci uscire, almeno per un istante, dall’ambito interpretativo strettamente estetico-formale, offrendoci un ponte verso altro, un invito ad uscire dai canoni illusori del reale e un ragionamento simbolico sulle correnti di energia che uniscono l’uomo al cosmo, la terra al cielo, l’infinitamente piccolo all’infinitamente grande.