Eracle e il complesso del Cavaliere Oscuro

2014

E una volta sottoposto al giogo della necessità,

dal suo animo spirò un mutamento empio, impuro, sacrilego:

da quel momento fu deciso a osare ogni cosa.

Eschilo, Agamennone

 

Forti, invincibili, capaci di volare nello spazio e nel tempo, di salvare intere città con un solo gesto o, volendo, di distruggerle. In grado di trasformarsi, di estendere il proprio corpo, di diventare trasparenti e di resistere al fuoco. In una parola, di fare tutto ciò che gli umani “normali” non sono in grado di fare, ma che da sempre sognano. Di chi stiamo parlando? Dei supereroi, certo. Ma, a pensarci bene, molto prima che il concetto stesso di supereroismo facesse capolino nei fumetti e nella letteratura popolare, un altro tipo di supereroe aveva già assunto su di sé tutte le caratteristiche che hanno poi contraddistinto questa strana genia di personaggi fantastici. Erano gli eroi, gli dèi e i semidèi greci: in grado, proprio come i loro epigoni del ventesimo secolo, di possedere tutte le peculiarità che avrebbero poi caratterizzato e reso celebre il concetto stesso di “supereroismo”.

Un tempo, si chiamavano semplicemente “eroi”, e non “supereroi”: ma non per questo erano meno portentosi. Del resto, il concetto di eroismo ha perso ormai nel nostro linguaggio ogni connotazione retorica, di stampo ottocentesco o primonovecentista, per acquisire, spesso con un intento provocatorio o semplicemente ironico, un senso più sottile, meno convenzionale e più controverso. 

Che si parli di “eroismo” o di “supereroismo”, si tratta comunque di un tema che ha profonde radici nella nostra storia e nella nostra cultura, a partire proprio dai più famosi eroi classici, omerici e tragici, che rappresentano nei loro tratti essenziali di virtù e prestanza fisica, ma spesso anche di contraddizioni, debolezze e insicurezze, gli archetipi dei supereroi dei nostri giorni.  

Come semi-dèi protettori degli uomini, gli antichi eroi riassumevano in sé valori di eccellenza fisica, bellezza, coraggio e forza, ma anche ingegno e abilità, fondatori di intere civiltà e popoli. Imponenti, belli e marziali oltre la media dell’umano, dipendevano da un codice di valori e doveri rigorosamente circoscritto e inflessibilmente praticato, legato, secondo lo schema della civiltà che l’antropologia definisce “di vergogna”, al proprio gruppo sociale, dove vigevano solo la misura della gloria o del disonore.

Eroi solitari e passionali, individualità d’eccezione pronti a sfidare il mondo e la società per affermare la loro eccellenza, già nei poemi omerici, nell’Iliade e nell’Odissea, compiono in battaglia gesta straordinarie, duelli impari e sanguinosi, per acquistare con una morte prematura l’eterno ricordo da parte dei posteri e fama imperitura. 

Ma integrati in un mondo che, seppure sostanzialmente laico e privo di una fondata teodicea, rimane popolato da divinità crudeli che intervengono arbitrariamente nelle vicende terrene e ne segnano il destino, gli eroi sono spesso sottoposti a un destino ambiguo e contraddittorio, al capriccio degli dèi, metafora del carattere ambiguo, precario, contraddittorio del reale, dove l’unico gesto veramente eroico è quello di accettare ciò che è fissato da una norma superiore e imperscrutabile. 

Da qui dunque si rivela una nuova, inaspettata veste dell’eroe, umana e sofferente, e contraddittoria rispetto all’immagine di “kalokagathòs” aristocratico, che li trasforma talvolta in vittime inaspettate; così il grande Eracle, primitivo “cavaliere oscuro”, eroe dorico civilizzatore per eccellenza, emblema di una concezione aristocratica di una “violenza giusta” e protagonista delle mitiche Dodici “Fatiche” contro mostri, Gorgoni, Giganti e Centauri, viene descritto da Sofocle nel momento in cui, di ritorno dall’Ade, teatro della sua ultima impresa, si risveglia annientato dalla follia omicida indotta dalla dea Era che lo spinge in un macabro delirio di onnipotenza a trucidare, con gli occhi iniettati di sangue, moglie e figli.  

Così nell’Iliade il grande Achille, “simile a un dio”, l’eroe per eccellenza che incarna l’ideale di forza fisica e morale, il più forte dei combattenti impegnati nella guerra di Troia, “distruttore di città” che annienta decine di avversari nel campo troiano, è avvolto nel segno di un fato inesorabile che ha segnato la sua morte: in una parvenza di libero arbitrio gli dèi gli hanno offerto di scegliere tra una morte gloriosa in battaglia o il ritorno a casa, nella terra nativa, salvo ma a tutti sconosciuto. E pur avvolto in questo alone di morte, decide di scegliere la gloria, ma di abbandonare la battaglia nel campo troiano perché privato della sua schiava preferita, bottino di guerra, causando la rovina e stragi tra i suoi compagni annientati senza la sua forza dai nemici; sarà solo il dolore per l’uccisione dell’amico e compagno Patroclo, l’”amico a lui più caro”, che lo spingerà a ributtarsi nella mischia dei nemici. 

Nei poemi omerici, Ulisse, un altro grande eroe della letteratura antica, archetipo mitico della libertà dell’uomo che si dipana per tutta la letteratura occidentale, appare descritto da Omero come basso, tarchiato, un po’ goffo; diventa nei suoi versi invincibile quando prende la parola, scaltro, diplomatico e mediatore in guerra, intelligente, menzognero e “abile nei raggiri” nel suo lungo viaggio di ritorno a casa nell’Odissea. Prototipo di un nuovo eroe, capace di riunire capacità oratorie e doti intellettuali accanto a quelle guerriere, viene tuttavia ritratto nell’Odissea mentre nella meravigliosa isola della dea Calipso, sorta di paradiso terrestre, piange “con lacrime e gemiti straziandosi il cuore” per la nostalgia di casa.

E così ancora Aiace, eroe sterminatore nei poemi omerici, forte e glorioso, nella tragedia di Sofocle impazzisce per mano di Atena e fa strage di buoi e delle mandrie del campo, pensando di combattere e uccidere i nemici troiani; al risveglio dalla follia, travolto dalla vergogna e dal disonore di un atto ridicolo, grottesco che può suscitare il riso tra le fila dei compagni, decide di suicidarsi. Filottete, nell’omonima tragedia, l’eroe abbandonato sull’isola di Lemno ed espulso dalla comunità dei Greci per via del morso di una vipera che aveva reso penoso e imbarazzante il contatto con lui, si rifiuta di tornare tra i compagni quando l’oracolo ha sancito la sua indispensabilità per la vittoria finale su Troia. E ancora le Amazzoni, eroine figlie di Ares, donne guerriere e cacciatrici, “un esercito che odia l’uomo”, e che, schierate a fianco dei Troiani, uccidevano gli uomini e li rendevano schiavi o li mutilavano; la loro regina, Pentesilea, femme fatale e combattente alla Wonder Woman, in un duello con Achille muore ma fa innamorare di sé l’eroe greco.

In questo sotteso ma evidente duplice aspetto in cui appare sempre il mondo eroico classico, glorioso e fulgido, perfettamente circoscritto da assiomi morali e sociali, ma già attraversato nelle sue basi da contraddizioni e incrinature, dove in fondo il libero arbitrio e la libertà individuale sono solo parvenze, e dietro ogni atto glorioso si nascondono motivazioni futili, frustrazioni, problematicità e conflittualità, si innesta già dunque in nuce, inavvertito ancora, il senso e l’abbandono della prospettiva del supereroe odierno, disgregato, convenzionale, privo di una propria solida immagine, spesso problematico e irriverente. Già dunque nei poemi omerici, serpeggianti e sottesi, ritroviamo − accanto a gesta straordinarie, forza sovrumana, atti feroci, bellezza − capriccio, arbitrio, angosce, debolezze e frustrazioni, in una rappresentazione della condizione umana e superumana priva di modelli, già complessa e problematica, che sembra forse anticipare insieme il modello glorioso del supereroe “senza paura e senza macchia” e il cupo e oscuro cavaliere nero alla Frank Miller. 

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