Equilibri
“Voi che avete la fortuna di avere tanto l’ombra che la luce,
voi che avete due occhi dotati della conoscenza prospettica
e allietati dal godimento dei vari colori, voi che potete “vederlo”
per davvero un angolo, e contemplare l’intera circonferenza
di un Circolo nella beata regione delle Tre Dimensioni…”
(Edwin A. Abbot, Flatlandia)
Una pittura piatta, disinteressata alla prospettiva, alla profondità, alle ombre e all’ingombro dei corpi è solitamente definita flat. Ogni volta che la critica incontra un pittore flat, i riferimenti corrono al fumetto, all’illustrazione, all’arte pop. È un riflesso condizionato, un impulso di pavloviana memoria che obbliga l’esperto a classificare queste espressioni, ancor prima di averle osservate, come forme artistiche derivate dall’immaginario della cultura di massa.
Massimo Caccia è senza dubbio un artista pop, ma non per i motivi che abbiamo elencato. Non s’ispira direttamente al fumetto, nonostante abbia disegnato fumetti. Non guarda all’illustrazione per l’infanzia, benché abbia illustrato almeno un paio di fiabe per bambini. Soprattutto, non strizza l’occhio alla cultura pop intesa come recupero d’iconografie largamente condivisibili. Non dipinge personaggi dei cartoon, dello star system, della politica e della cronaca. In realtà, non si dedica ad alcun argomento in particolare. Non è un artista “tematico”, né “concettuale”. Non si può, usando un vezzo del lessico critico, definire la sua arte come una “ricerca”, mentre è piuttosto facile scorgervi una serie di piccole “scoperte” formali e sintattiche che procedono da altrettante illuminazioni mentali.
Le sue opere possiedono la qualità rara di non annoiare l’osservatore e, dunque, di non consumarsi in fretta, principalmente perché l’artista trasferisce in esse quel senso di incompiutezza e di sospensione che egli stesso forse avverte in quel prezioso e inafferrabile attimo in cui l’immagine prende corpo nell’immaginazione. Non si tratta solo di quell’abilità narrativa, una qualità che già altrove sottolineavo e che fa sembrare le sue opere come frammenti di uno storyboard incompiuto, di cui si sia perso l’incipit e l’epilogo. Non è solo la suspense tipica di un racconto noir a catturare lo sguardo dell’osservatore e ad avvincerlo, ma è qualcosa che sfugge alla comprensione logica e razionale. Sembra quasi che le immagini dipinte da Caccia rilascino il loro significato in due tempi. In un primo momento ne cogliamo il senso generale e in seguito ne afferriamo le implicazioni. In questo, Caccia è senz’altro un maestro della narrazione, ma io sospetto anche della “rivelazione”. Le sue opere sono frammenti di una storia più ampia, che lo spettatore completa a suo piacimento, ma allo stesso tempo sono enigmi simili a kōan. Nella pratica Zen, il kōan è un’affermazione paradossale, un rompicapo che serve a "risvegliare" la consapevolezza del discepolo. Uno dei più celebri è “Qual è il suono di una sola mano che applaude?”. Un altro recita: “se non puoi fare niente, che cosa puoi fare?”. Sono quesiti che suppongono risposte diverse secondo la persona che le fornisce. Ma ciò che conta è la domanda, non la risposta.
Nella loro apparente semplicità, le immagini create dall’artista milanese, sono simili a quesiti. Sono rebus o enigmi, lanciati, come missili, nello spazio cognitivo del pubblico. Sono trappole mentali che attendono di essere disinnescate, ma, è bene sottolineare, che non esiste una procedura standard. Ognuno sbroglia la matassa a proprio modo. Sempre ammesso che vi sia una matassa da sbrogliare.
Massimo Caccia è un pittore asciutto, secco e sintetico come un minimalista, ma allo stesso tempo semplice, immediato e diretto come un artista pop.
La sua è una grammatica ridotta a pochissimi lemmi, una lingua basilare, lineare, dove il segno e i colori sono calibrati e controllati al massimo grado. Per questo, oltre che per la presenza di una già evidente tendenza narrativa, Caccia evita di titolare le proprie opere. Il titolo è, infatti, un corpo estraneo alla pittura, un elemento che vincola e che dirige l’attenzione di chi guarda verso un certo tipo d’interpretazione, escludendo così tutte le altre. Il contrario di quanto Caccia si propone di fare, e cioè, il minimo possibile. Il minimalismo di Caccia è, quindi, una forma rispettosa di parsimonia, di continenza verbale, il riflesso della convinzione che la pittura debba esprimersi solo con i propri mezzi, senza ricorrere ad altri linguaggi. L’aspetto pop delle opere dell’artista, consiste principalmente nell’assoluta semplicità dei soggetti, figure di bizzarri animali, poste in relazione con oggetti quotidiani su fondali uniformi, spesso monocromatici. Come ha affermato in una recente intervista, “una pittura semplice, con tinte piatte e contorno nero mi sembrava quella più adatta per le cose che voglio dire… immediata, semplice, ma anche tagliente come un rasoio”. C’è, in effetti, qualcosa di affilato nell’arte di Caccia, che assume la forma di una serpeggiante crudeltà, come nel caso del dipinto con la lumaca che corre sul filo della lama di un rasoio o in quello della iena col muso sporco di sangue. L’artista evidenzia con assoluta freddezza il carattere ferale delle sue creature, che conservano, nonostante l’aspetto fiabesco, un naturale istinto omicida, come nell’immagine della serpe in procinto di divorare l’uovo. Caccia descrive un mondo molto prossimo a quello reale, dove ogni essere è vittima e carnefice. In un certo qual modo, egli rispetta l’equilibrio esistente in natura. Anzi, ne fa una metafora della fragilità e precarietà dell’esistenza. Il pesciolino rosso nel bicchiere d’acqua in bilico sul piano di un tavolo ne è un esempio. Lo stesso si può dire della mantide che ondeggia su un sottile ramo, bilanciando il proprio peso con le qualità elastiche di quest’ultimo. L’equilibrio, come condizione esistenziale e come qualità dello spirito, ricorre anche in altri lavori recenti. La scienza definisce l’equilibrio come lo stato fisico di un sistema nel quale non intervengono cambiamenti se non per cause esterne. Nella fisica classica è, invece, la stabilità di un corpo sia fermo che in moto. Beffardamente, le creature di Caccia sono colte proprio nell’attimo fugace in cui questa staticità è finalmente raggiunta. Ma si tratta di una condizione innaturale in un cosmo dominato dall’impermanenza. L’immagine del coniglio stabile sulla superficie curva di una lattina diventa così un paradosso, un kōan, appunto. Quelle di Caccia sono opere deliberatamente equivoche, costruite per riflettere ambiguità percettive che possono tradursi in ambiguità ontologiche. L’illusione del pesce volante in procinto di divorare la luna è un gioco visivo che può trasformarsi in una riflessione sulla natura ingannevole delle apparenze, mentre l’associazione apparentemente priva di senso tra una rana e un rossetto, rimanda inevitabilmente alla favola del Principe Ranocchio. Caccia consegna le sue invenzioni a meccanismi cognitivi prevedibili, che portano l’osservatore a completare il rebus con significati ulteriori.
A ben pensarci, Caccia è autore solo una parte dell’opera. L’altra parte è firmata dal pubblico. Anche questa, in fondo, è una forma di equilibrio.